Da tre anni mi sono trasferito a Milano, ma questo weekend siamo tornati a Roma perché il 26 maggio era il termine della gravidanza del mio migliore amico e di sua moglie.
Spoiler: mentre scrivo, Giulio non è ancora nato.
L’attesa è un tempo strano, sospeso.
E quando non è la tua, è ancora più strana.
In questi giorni romani, tra bombolotti all’amatriciana e conversazioni sugose, è saltato fuori un boh grosso come il Colosseo:
Com’è che nessuno chiede mai a un papà come sta durante la gravidanza?
In quel momento mi sono sentito come i gatti quando leccano il gelato.
Pur navigando queste acque, non mi ero mai posto la domanda.
E come sapete, di domande, me ne pongo abbastanza.
Certo, mi sono chiesto quale fosse il mio ruolo accanto a mia moglie in questa fase.
Quali fossero le cose che mi avrebbero aiutato a starle accanto.
Ma, effettivamente, non mi ero ancora concentrato sul fatto che può capitare di sentirsi messi da parte.
Non sono ancora arrivato a quel punto della gravidanza in cui tutti si interessano alla mamma e poco al papà, o semplicemente mi sono fatto condizionare dal fatto che per indole finisco per interessarmi spesso a come si sentono gli altri?
Di sicuro questo boh non è ancora il mio, ma è un boh condiviso.
Quindi, perché non è così facile pensare, chiedere o domandare ai papà?
Non intendo:
“Sei pronto?” – che molti pensano sia la versione soft di “Ti sei già pentito?”
Parlo di una domanda vera, sincera, piena come quei famosi bombolotti che ho divorato. Una domanda di quelle che ti fanno sedere e respirare:
“Come stai?”
Emotivamente, intendo. Mentalmente. Umanamente.
Perché lo sappiamo che non siamo noi a portare il pancione, ma anche stare accanto non è sempre semplice. In parte ve ne ho parlato.
Eppure si dà per scontato che l’uomo ci sia, punto. Che accompagni, che supporti, che partecipi al parto, che tagli il cordone, che pianga (ma non troppo), che sia presente ma non invadente.
Ma chi ce lo ha spiegato, esattamente, come si fa?
Ma chi l’ha detto che sia semplice?
Stare vicino senza scomparire.
Essere forti senza prevalicare.
Essere padri, senza esserlo.
E poi, c’è stato un altro pensiero che mi ha preso di sorpresa.
Diario di un (quasi) babboh: settimana 13
Entrare nel secondo trimestre significa tirare un po’ il fiato.
Mia moglie sembra stare molto meglio. Ha un’energia nuova.
Ma soprattutto, signori e signore, abbiamo una pancia.
E io ho iniziato a cercarla, a parlarle, a sentirla parte della mia quotidianità.
Iniziamo a pensare concretamente a cosa dovrà cambiare: prendiamo le misure con un nuovo mondo, dai pantaloni che non le entrano più alla casa che probabilmente ci starà stretta.
Intanto manca ancora una settimana alla prossima ecografia.
E non sto nella pelle.
Poi mentre guardo il mio migliore amico contare le ore, torno con i piedi per terra e mi dico che ho ancora tanto da affrontare.
Però finisco per proiettarmi in avanti di qualche mese.
A quando toccherà a noi.
E mi torna in mente una cosa a cui ho pensato, almeno un paio di volte.
Mento. Sono sicuramente di più.
Come sarà vivere tutto questo lontano dai miei amici più stretti?
Ho avuto la fortuna di vedere gli occhi di un altro dei miei migliori amici poco dopo la nascita di sua figlia, ed è uno sguardo che non dimenticherò mai.
Il fatto che ora sono su un treno per Milano e che non avrò la possibilità di stare accanto a lui il giorno più importante della sua vita, mi sta dilaniando.
Non perché lui abbia bisogno di me. Non perché ci sia qualcosa che possa essere più importante di quello che sta per vivere…
Mia moglie mi ha chiesto: “perché la stai vivendo così male?”
Penso di averlo metabolizzato scrivendo questa puntata.
Credo non sia solo per il bene che gli voglio, ma perché sto proiettando quell’assenza al momento in cui toccherà a me.
A proposito di nascite.
Per una nascita che aspetto, una l’ho già vissuta.
E che per chi fa PMA ha un nome tecnico, un po’ freddo: transfer.
Mi ricordo che prima di farlo sentivamo storie di padri che svenivano. E io, sinceramente, pensavo: “Dai su, ma come si fa a svenire per una cosa del genere?”
Poi ci sono entrato anch’io, in quella stanza.
È una sala operatoria a tutti gli effetti. Tua moglie stesa su un lettino al centro. Tu alle sue spalle, seduto su uno sgabello di metallo che sembra uscito da un laboratorio sovietico. Intorno medici, ostetriche, infermieri. Davanti: il reparto di embriologia.
Non c’è sangue. Non c’è dolore.
Eppure capisci perché si sviene.
Non è il corpo. È il cuore.
È l’emozione, che ti esplode addosso senza preavviso.
Perché quando sei seduto su quello sgabello, inizi a pensare una marea di cose tutte insieme.
La prima: che sei cresciuto con l’idea che la nascita cominci col parto.
E invece, in quel momento, la vita inizia in modo silenzioso, quasi invisibile. Vedi quella cannula entrare nell’utero di tua moglie e depositare un ovulo fecondato.
Tutto è piccolissimo. Ma dentro di te succede qualcosa di enorme.
Un cortocircuito.
Sai tutto. Ma non capisci nulla.
È un’emozione strana. Ancestrale e modernissima.
Quasi digitale. Ma umanissima.
Tutto questo per dire che c’è un altro momento che ci riguarda e che spesso affrontiamo solo in parte. C’è un altro boh gigante, che in parte è uscito anche in questi giorni romani, ed è legato alla nostra presenza in uno dei momenti più importanti di questo percorso.
Papà? … Presente?
Me la sono immaginata così, la scena:
l’ostetrica che fa l’appello prima del grande momento.
Ginecologa? Presente.
Anestesista? Presente.
Infermieri? Presenti.
Poi tocca a te.
Un secondo di silenzio.
Papà?
…
Presente?
E lì ti viene il dubbio.
Perché rispondere “presente” non è sempre semplice.
Non è scontato sapere cosa significhi esserlo, davvero.
L’esperienza del transfer mi ha dato un assaggio importante di questa scena.
Ma in modo completamente diverso.
Perché il transfer è silenzioso, quasi intimo, sospeso nel tempo.
Il parto invece è un terremoto annunciato.
Con un epicentro emotivo che non sai mai davvero dove sarà.
E allora:
“Tu entri in sala parto?”
È una di quelle domande che prima o poi forse ci fanno.
Ma che noi sicuramente ci facciamo.
Risposte? Le più disparate.
“Certo, che domande!”
“No guarda, non reggo neanche i prelievi.”
“Entro ma sto in un angolo.”
“Ma sei pazzo? Io svengo alla vista di un termometro.”
E la verità è che non c’è una risposta giusta.
C’è solo la tua. La vostra.
Perché non è una prova di coraggio, né una gara a chi ama di più.
È un atto di presenza. Che può avere mille forme.
Anche quella di aspettare fuori, se è la cosa migliore per entrambi.
Ma ecco, io il transfer l’ho fatto.
E lì ho capito una cosa: che “entrare” non è questione di forza fisica o stomaco.
È questione di cuore.
È la capacità di stare, senza fare.
Di sentire tutto, anche se non puoi muovere niente.
Ed è per questo che, sì, l’idea della sala parto mi fa paura.
Ma anche no.
Nessuno fa l’appello. Nessuno è lì per darci un voto.
Perché in fondo non lo facciamo solo per noi.
Lo facciamo anche per la persona a cui stringiamo la mano.
E quindi mi sono seduto su uno sgabello freddissimo, con la mano nella mano di mia moglie, l’ho stretta ed ho pianto mentre una vita minuscola veniva posata nel posto più importante del mondo.
Grazie per aver letto questa puntata di Babboh.
Come immagini il tuo “esserci”, quando sarà il tuo turno?
E se ci sei già passato, com’è andata davvero?
Hai mai avuto paura di entrare in sala parto?
Hai scelto di farlo? Di non farlo? Ti sei pentito? Ti sei sentito forte? Fragile?
Se ti va di raccontarlo, io ti leggo volentieri.
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