Dalla domanda che dà il titolo a questo episodio parte l’ultima puntata di Sigmund, il podcast di Daniela Collu, che per l’occasione ospita la psicoterapeuta Valentina Berruti.
Si parla di genitorialità. Sul serio. Senza troppi giri di parole.
Una puntata densa, ma necessaria.
Come una secchiata d’acqua gelida al momento giusto.
Vi avevo promesso un numero dedicato agli esami più importanti che abbiamo fatto in questo trimestre… ma rimando. I pensieri dopo l’ascolto sono ancora caldi, tipo pane appena sfornato.
Meglio gustarli mentre fumano.
Diario di un (quasi) Babboh: settimana 11
All’inizio di questa settimana abbiamo fatto il DNA fetale e il giorno dopo, un’ecografia di controllo. Di solito si fa il contrario, ma tra incastri, orari e imprevisti… l’ordine è saltato. Si fa prima l’eco perché, se qualcosa non va (o peggio, non c’è battito), fare il test del DNA non ha molto senso.
Spoiler: l’eco è andata bene. Feto presente, battito pure. La pancia cresce, le nausee calano. Ho sentito il suo cuore per la prima volta, l’ho visto muoversi, reagire. È stato come vedere il trailer di un film che stai aspettando da una vita.
Il giorno dopo siamo volati a Bristol, dove vivono mia sorella e suo marito. Nel bagaglio a mano — minuscolo e costosissimo, classic Ryanair — portavamo una notizia grande, gigante.
Loro conoscono il percorso che abbiamo fatto, sanno che ci abbiamo provato a lungo, ma tra falsi indizi piazzati con la finezza di un prestigiatore, non sospettano quello che stiamo per dirgli:
“Hey, è successo. State per diventare zii. Davvero!”.
In volo ho ascoltato la puntata di Sigmund. Una puntata che, in qualche modo, è sembrata un’intera sessione di psicoterapia.
Vi lascio tre dei temi che si discutono e che mi hanno fatto più compagnia in questi giorni d’attesa dei risultati del test del DNA.
👶🏻 Tema 1: Il bambino immaginato.
C’è una cosa che facciamo tutti, consciamente o meno: immaginare il nostro futuro figlio. Come sarà? A chi somiglierà? Che musica ascolterà?
(Ditemi che non avrà i gusti di sua madre, vi prego. 🫣😂)
Il problema, dice la dottoressa Berruti, è che spesso quel bambino è una proiezione dei nostri desideri, dei nostri buchi neri, delle nostre frustrazioni. Una specie di “patch” emotivo.
“Io non sono riuscito a diventare musicista? Magari lo farà mio figlio.”
E invece, magari lui sognerà di fare il contabile o il contadino. E andrà bene così.
Siamo pronti ad accogliere un figlio per quello che è, e non per quello che abbiamo fantasticato? Lo amiamo già, o amiamo un’idea che ci siamo fatti di lui?
Nel caso della PMA, racconta la dottoressa, il figlio può diventare anche una “riparazione” dell’autostima ferita dall’infertilità.
Ma i figli non sono cerotti emotivi.
Sono persone. Con tutto il loro casino meraviglioso.
🧬 Tema 2: La PMA, oltre il corpo.
A un certo punto, Daniela Collu legge una lettera di un’ascoltatrice, Chiara, che chiede di parlare di più della dimensione psicologica della PMA. E ha ragione. Perché non è solo una procedura medica.
È un terremoto.
Che parte dal corpo ma arriva dritto al cuore (e spesso lo prende a pugni).
Si parla di Céline Lafontaine e della sua “società postmortale”: quella che crede di poter controllare tutto, anche i tempi della vita.
Ma non funziona così. I limiti ci sono. Biologici, economici, sociali. E fanno male proprio perché nessuno ce li racconta per tempo.
Nel frattempo, le coppie vivono crisi profonde. Esistenziali. Si sentono rotte. Inadeguate.
Ma — e qui torno al mio primo numero — la genitorialità non è una questione di capacità biologica.
È una questione di desiderio, intenzione, relazione.
“Il modo in cui si arriva alla genitorialità non definisce che genitore sei. Lo definisce il desiderio.”
E voi?
Quanto vi siete sentiti definiti dalla vostra (in)fertilità?
Quanto peso avete dato al modo in cui ci siete arrivati?
🗣️ Tema 3: Accettare, comunicare, convivere.
In studio c’è anche Beatrice Arnera, attrice e cantante che recentemente ha raccontato diversi momenti della sua maternità.
Parla senza filtri. E il suo racconto è un pugno nello stomaco.
Ma anche un atto di resistenza.
Si parla di stigma. Di violenza ostetrica. Di come, per esempio, una donna che ha appena perso un figlio venga ricoverata nello stesso reparto di chi sta partorendo.
Una crudeltà silenziosa, che nessuno pensa a evitare.
Ma si parla anche di comunicazione. Di quanto farebbe bene se certi medici facessero un corso base di empatia. Perché spesso, e non solo alle coppie, mancano proprio le parole per affrontare e raccontare il dolore. E senza parole, il dolore pesa il doppio.
E qui si arriva a un nodo centrale: il lutto.
Il lutto per un figlio mai nato. Di cui non si parla. Perché fa paura. Perché “non si fa”. Perché “non è un vero figlio”.
E invece sì, lo è. E quel dolore va riconosciuto, condiviso, raccontato.
“La nostra società il lutto lo nega. O lo spettacolarizza. Ma elaborarlo? Quasi mai.”
E tu, ne hai mai parlato?
Hai avuto qualcuno disposto ad ascoltarti senza “aggiustarti”?
Come stai quando senti frasi tipo: “Vedrai che succede quando smettete di pensarci”?
Si parla anche di chi, a un certo punto del percorso, decide che no, non diventerà genitore.
E va bene così.
Ma anche questo va legittimato, accettato.
Come si impara a farlo? Come si spiega agli altri che non siamo meno, se non diventiamo genitori?
🎤 Questione di voce (e di contesto).
Chissà come sarebbe stata quella puntata di Sigmund se, accanto a tutte quelle voci femminili, ci fosse stata anche una voce maschile.
Non per bilanciare, ma per vedere cosa sarebbe successo.
Che effetto fa ascoltare certe fragilità da una voce che, culturalmente, non le racconta quasi mai?
Mi è tornato in mente un altro episodio recente: Pintus ospite al BSMT di Gazzoli.
Un’intervista molto diversa, ovviamente, per tono e formato.
Ma anche lì si è parlato di PMA, di percorsi difficili, di come certi ostacoli possono trasformarsi in esperienza. Mi è piaciuto molto sentirlo raccontare la sua storia con sincerità e delicatezza.
E mi sono chiesto: come sarebbe stato sentirlo nello spazio di Sigmund?
Un contesto più intimo, più psicologico, dove magari certi pensieri trovano più tempo per sedimentare.
Non per avere risposte diverse, ma per vedere che forma prende il racconto quando cambia la cornice. In fondo, è anche questo che mi interessa: non solo chi parla, ma dove e come lo fa.
E forse interessa anche a voi, Babboh esiste proprio per questo motivo.
Per esplorare una voce maschile che non ha paura di stare comoda anche nei pensieri scomodi.
Intanto, mentre scrivo queste ultime righe, siamo ancora a Bristol.
E vi posso dire che la notizia, a mia sorella, l’abbiamo data.
Per la prima volta da quando tutto è cominciato… ho pianto.
Non mi era successo con nessun altro.
Ma la sua reazione è stata così potente, così piena di emozione, che ha rotto la diga.
E nel frattempo, come se non bastasse, sono arrivati anche i risultati del test del DNA.
La cosa più importante è che sono negativi.
La seconda è che ora conosciamo il suo sesso.
Ma questa è tutta un’altra storia.
Se sei arrivato fin qui, grazie. Davvero.
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