Prendere le misure.
Tornare a casa con un neonato è come sbarcare da un volo intercontinentale: sei tu il bagaglio da disfare, sei tu a dover trovare spazio, equilibrio e routine.
Le prime settimane con un neonato sto imparando che sono tutto e il contrario di tutto.
Anche se non hai ancora dei figli, puoi immaginarlo: è come tornare a casa dopo un viaggio, solo che il viaggio adesso sei tu.
Nei giorni in clinica ti senti protetto: c’è il nido, l’ostetrica, l’infermiera e persino la mamma del letto accanto che ha già l’esperienza di un altro figlio.
Quando torni a casa, invece, è come nei meme che girano sui social: SCT (so’ cazzi tuoi).
Eppure, è venuta fuori la parte migliore di noi. E anche di me.
Quella che fino a un secondo prima è in ansia – non per paura di sbagliare, ma per voglia di fare bene – e che poi sparisce completamente quando inizio a fare.
Ad esempio, ho chiesto di poter cambiare Nina subito, appena si poteva.
Non avevo mai cambiato un pannolino prima. Avevo l’ansia? Sì.
Ma avevo anche voglia di imparare il prima possibile.
E non ho avuto problemi neanche a prendermi cura del cordone ombelicale – sì, quello che ci mette qualche giorno a cadere e a molti fa impressione.
Faceva impressione anche a me, ma ho imparato che per un figlio si fanno anche cose che ti impressionano.
Non ho avuto timore a prenderla in braccio quando mi sembrava la cosa più fragile al mondo.
A lavarla, quando tutto sembra un esercizio da prestigiatore: con una mano tieni in equilibrio 3 kg e 50 cm che si agitano come un toro a Pamplona, con l’altra cerchi di regolare l’acqua calda, che passa da “lava che ha sepolto Pompei” a “iceberg che ha affondato il Titanic” in un millesimo di secondo.
E poi oh, ho imparato anche a orientarmi nell’igiene dei genitali femminili, che segue regole completamente diverse da quelle a cui sono abituato.
Ragazzi, lo ridico perché non fa mai male: da davanti verso dietro, sempre.
Se inverti l’ordine, ti si apre un mondo che è meglio non scoprire.
Il rientro a casa, comunque, è stato come entrare in una bolla.
Stop alle notifiche, stop ai pensieri lineari, stop alla versione di me convinto che nella vita esistessero davvero delle priorità.
Adesso la priorità è lei.
Fuori sembra tutto normale: il sole sorge, la gente va al lavoro, prende il caffè, si lamenta del clima – il mondo gira, insomma.
Dentro casa, invece, il tempo è diventato un blob: si dilata, si restringe, evapora come il mio fiato sul vetro, quando la mattina apro la tapparella per capire che giorno ci aspetta.
Le giornate si sciolgono come puntate di una serie che guardi distrattamente mentre il dito e gli occhi si concentrano su quello che scorre nel cellulare.
Avevo un “programma”.
Ora ho un neonato.
E il neonato vince sempre.
Ve l’hanno detto tutti, lo so.
Ma viverlo è tutta un’altra cosa.
(Ed eccomi qui, già nel club di quelli “con esperienza”. Che ansia.)
Imparare a conoscersi (tutti e tre)
Sfido chiunque abbia avuto un figlio a non ammettere che i primi giorni si passano delle ore a guardare, fissare, scrutare, analizzare il proprio neonato.
Che si tratti di capire le sue espressioni, decifrare un verso e, ammettiamolo, anche vedere se è viva mentre dorme avvolta dal sacco nanna.
Il punto, però, è che non riguarda solo lei.
In questi giorni non sto solo conoscendo mia figlia.
Sto conoscendo noi come genitori.
Che è una cosa completamente diversa.
I primi giorni sono un tetris di tentativi, errori e micro-vittorie che sembrano minuscole, ma dentro sono gigantesche.
Qualcuno direbbe: “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per la genitorialità”.
E non parlo solo di infilare un body alle tre di notte.
Che poi, parentesi: chi li produce, come li etichetta? Perché ogni taglia sembra fatta a sentimento?
Le vere misure da prendere non c’entrano niente con i vestiti.
Le misure più complicate sono quelle emotive.
Ci sono cose che posso fare: cambiare, tenere in braccio, cullare, contenere.
E cose che non posso fare, perché lei ha bisogno di sua madre.
Biologicamente.
Esistenzialmente.
E lì devi misurarti con la frustrazione buona.
Quella che ti fa dire: “Vorrei aiutare di più, ma non posso”.
È una misura nuova, difficile, ma potentissima.
È il primo vero “boh” di questa nuova versione di Babboh: il ruolo che hai, il ruolo che non hai, e tutto quello che sta nel mezzo.
Devo imparare a convivere con mia moglie che è stanca morta ma continua a esistere con una forza che davvero non pensavo potesse avere.
Accettare che non posso sostituirmi a lei, ma che il mio supporto sarà inevitabilmente diverso.
Non minore, solo diverso.
Noi siamo il supporto morale e tecnico: quello che regge, coordina, tiene insieme, porta l’acqua, ma soprattutto tranquillità.
Loro sono il supporto vitale: quello che nutre e consola.
A tratti ci si può sentire un po’ trasparenti.
Ma poi capisci che trasparente non è invisibile: è necessario.
Il bello è che ogni giorno scopri una versione nuova di te.
E non è detto che ti piaccia sempre.
Ma fa parte del percorso.
C’è un elemento che è l’emblema di tutto questo, la sintesi di quello che è il ruolo materno e quello paterno.
Uno scontro di correnti di pensiero.
Di formule, magiche e non.
Parlo dell’allattamento.
Un tema così grande che forse è meglio dedicargli una puntata intera.
La prossima.

