Con qualche giorno di ritardo, eccoci.
Sono stato su un set (tra poco potrò raccontarvi di più su chi sono, oltre a provare ad essere un futuro padre) e mentre fissavo ciak e fondali verdi, non riuscivo a raccogliere i pensieri per questo numero.
Ma poi è successa una cosa che mi ha completamente spiazzato.
Durante una cena di lavoro, ho provato qualcosa che non sentivo da molto.
📓 Diario di un (quasi) Babboh: settimana 12
Lo so.
Voi siete qui per sapere il sesso del futuro coinquilino di casa nostra.
Dopo l’esito del DNA, vi aspettate fanfare, coriandoli rosa o azzurri, uno di quei gender reveal virali pieni di situazioni imbarazzanti.
E invece.
Io forse ho ancora bisogno di un attimo per capire come mi sento.
Non tanto per il “maschio o femmina”, quanto per tutto il resto che quel risultato si è portato dietro.
Dopo l’esame del DNA abbiamo fatto un’altra tappa importante: la translucenza nucale.
È un’ecografia che si fa tra l’11ª e la 14ª settimana, e serve a misurare un piccolo spessore dietro la nuca del feto.
Un dettaglio minuscolo, millimetrico, ma che può dire molto: insieme ad altri parametri, serve a valutare il rischio di anomalie cromosomiche, come la sindrome di Down.
Spoiler: tutto bene.
E insieme alla translucenza abbiamo fatto anche il Bi-Test.
In pratica, una formula da scienziati pazzi: si prendono i valori ematici della mamma (due ormoni specifici: free beta-hCG e PAPP-A), si incrociano con i dati ecografici e con l’età materna.
Il risultato? Un numero che stima la probabilità che il feto abbia determinate condizioni genetiche.
Siamo a cena. Tavolo lungo, dieci persone.
Colleghi, casa di produzione, regista, cliente, mix variegato per genere, età e provenienza.
A un certo punto – non ricordo nemmeno chi abbia lanciato il sasso, forse proprio io – si inizia a parlare di figli.
E lì Lorenzo, un uomo con cui condivido età, stile di vita e forse anche playlist Spotify, inizia a raccontare.
Racconta di loro.
Di tentativi, di incastri, di attese.
Di cliniche. Di quella volta che hanno pensato di mollare.
Della sensazione che ogni volta fosse un episodio pilota che non veniva mai rinnovato.
E lo fa con una lucidità e una semplicità che mi spiazzano.
Solitamente, quel “qualcuno” che racconta così, sono io.
Sempre pensato fosse un mio modo per esorcizzare, per mettere fuori quello che non volevo mi marcisse dentro.
(Hey Sherlock, ci stai scrivendo una newsletter. - Hai ragione, Watson.)
Mentre Lorenzo parlava, mia moglie mi prendeva a calci sotto il tavolo.
Non per farmi smettere di fissarlo, ma perché era scioccata anche lei.
Era come ascoltare la mia stessa storia, solo con un’altra voce.
Un altro me, seduto lì accanto.
🤯 E quindi?
Per un attimo mi sono sentito meno alieno.
Meno diverso.
Meno “caso da raccontare solo agli amici stretti”.
E forse, tra tutte le cose che ci servono in questo percorso (pazienza, stamina, cioccolato fondente), la più potente è questa: sentirsi riconosciuti.
Così, spinto da quell’energia lì, ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima: ho parlato.
Ho detto a quella tavolata che anche noi eravamo in attesa.
Ho raccontato la nostra storia, dalla A di AMH alla Z di Zigote.
Ho nominato la PMA senza abbassare la voce, senza preamboli.
Per la prima volta, a viso aperto, con persone che non fanno parte della mia cerchia stretta. Persone che mi conoscono per quello che faccio, non per quello che provo.
Ed è stato liberatorio.
E il giorno dopo, tra un ciak e l’altro, durante la pausa pranzo, qualcuno ha raccontato ai colleghi che non erano stati con noi a cena quello che era successo.
E di colpo, via col remake.
Auguri. Toto nomi. Ipotesi su segni zodiacali…
Ma poi, come se quella confessione avesse sbloccato un codice segreto, siamo tornati a parlare di PMA. E dello stigma.
Al tavolo eravamo in sei.
Quattro avevano vissuto una storia simile – se non direttamente, attraverso amici o familiari. Un’altra persona ha iniziato a parlare del proprio stigma personale.
Non legato alla fertilità, ma ad altro. Una malattia cronica. Un dolore nascosto.
E ha detto una cosa vera:
“Cambiano le malattie, ma il silenzio è sempre lo stesso.”
Tranquilli. Non eravamo in cerchio, sconsolati, a raccontarci i nostri disagi.
Al contrario. Eravamo in un posto nuovo.
O meglio: in un posto che forse conoscevo già, ma che non faceva parte della mia quotidianità.
Un luogo dove gente diversa – non amici, non parenti – riusciva a mettere giù la maschera, superare le proprie barriere emotive, e commentare i propri limiti in pubblico.
Sembra una cazzata.
Ma non lo è.
💬 Parliamone.
Penso che alla fine questa newsletter nasca proprio per questo.
Per leggere e sentirsi meno soli.
È facile dire cosa fare in un certo momento.
È facile spiegare un test, un’analisi, un valore.
È facile scrivere un libretto delle istruzioni.
È molto più complicato rompere le barriere.
Mi sono chiesto se questo contenuto avesse davvero mordente.
Poi ho ripensato a quella sensazione, a quella tavola, a quelle voci.
E mi sono ricordato perché ho iniziato questa cosa.
Non è solo per i boh che ci domandiamo a vicenda.
È per tutti quei boh che non abbiamo il coraggio di affrontare.
Ma che forse, raccontati insieme, fanno un po’ meno paura.
Ti è mai capitato di trovarti in una conversazione che non ti aspettavi, e di sentirti improvvisamente meno solo?
Hai mai rotto il silenzio su qualcosa che pensavi fosse solo tuo?
Hai voglia di raccontarlo?
Scrivimi, se ti va.
Oppure gira questa newsletter a qualcuno che potrebbe aver bisogno di leggerla.
Più ci parliamo, meno restiamo chiusi nei nostri boh.
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