Ciao.
Com’è andata la Pasqua?
Io l’ho passata in famiglia, tra colombe, uova di cioccolata e una sorpresa che qualcuno si aspettava e qualcuno proprio no.
Diario di un (quasi) babboh: settimana 8
L’essere umano che sta crescendo dentro mia moglie — ironia delle ironie — sta sviluppando le papille gustative proprio mentre lei ha dovuto saltare mezzo menu di Pasqua.
Lui invece, comodamente immerso nel suo liquido amniotico, ha iniziato ad assaggiare il mondo.
E probabilmente ha sentito un leggero retrogusto di privazione.
Il piatto forte della settimana, però, è stato un altro: abbiamo detto ai nostri genitori che aspettiamo un figlio.
Nei mesi scorsi, avevamo già condiviso a sprazzi il nostro percorso di PMA con la mia famiglia. Mia moglie invece aveva scelto di proteggere parte della sua da un carico emotivo che avrebbe rischiato di moltiplicare l’ansia anziché alleggerirla.
Scegliere a chi dirlo e come, è stata una cosa che ci ha messo subito a nostro agio. Nessuno più giusto dell’altro. Solo due modi diversi di gestire la stessa montagna.
Eppure, nel momento in cui abbiamo dato la notizia ci siamo trovati a provare la stessa identica sensazione: un nodo piccolo, che non stringe. Ma c’è.
Perché dirlo ad alta voce, ha avuto un doppio effetto: da una parte, ha reso tutto incredibilmente reale. Dall’altra, ha segnato il confine tra il nostro segreto e una cosa che adesso esiste, anche per altri. Una cosa condivisa. Aperta. Esposta.
È stato come aprire una finestra: l’aria fresca fa bene, ma entra anche un po’ di mondo. E con il mondo, inevitabilmente, anche i suoi occhi e le sue aspettative.
Ma forse è giusto così. Forse crescere — come coppia e come futuri genitori — passa anche da qui: imparare a lasciar entrare, senza smettere di proteggere.
E nel farlo, qualcosa cambia: non è che inizi a vedere i tuoi genitori in modo diverso da zero — li hai sempre osservati, capiti, anche messi in discussione — ma ora li guardi da una prospettiva nuova. Come se il fatto di diventare padre ti avvicinasse a loro, ma anche ti separasse quel tanto che basta per rimettere a fuoco il quadro.
E ti chiedi: che rapporto abbiamo avuto? E quanto di quel rapporto sta già influenzando quello che costruiremo con nostro figlio?
Chissà se anche per te è stato così.
Se anche tu ti sei chiesto cosa ti stai portando dietro — e cosa potresti lasciar andare.
Queste domande però non sono state casuali.
Il rischio di diventare (mio) padre.
Qualche mese fa, ho parlato con la terapista di mia moglie.
Stavo valutando di iniziare anch’io un percorso, soprattutto per lavorare sul rapporto con i miei genitori. Non c’entrava niente con il diventare padre — anche perché, allora, non era affatto detto che lo sarei diventato.
Durante quella conversazione, mi ha detto una cosa tanto banale quanto sconvolgente:
“Il rapporto che hai avuto con i tuoi genitori influenzerà quello che avrai con i tuoi figli.”
L’idea di trasformarmi in quello che, con il tempo, ho imparato a riconoscere e analizzare, mi ha destabilizzato.
Fino a quel momento pensavo solo all’impatto che quel rapporto aveva avuto su di me. Non avevo mai considerato che, a cascata, avrebbe potuto influenzare anche questa nuova parte della mia vita.
Si dà per scontato che basti imparare dagli errori per non ripeterli.
E invece, spesso, finisci per esserli.
Quella semplice frase, in questi mesi, ha continuato a essere scolpita nei miei pensieri. Tanto che, messa da parte l’euforia e la scaramanzia dei primi giorni, la prima cosa che ho fatto è stata iniziare ad affrontare il tema.
Mi sono chiesto spesso: Che padre voglio essere? Cosa posso modificare? Cosa voglio cambiare per non cadere negli stessi automatismi?
Ti sei mai fatto queste domande anche tu?
Due titoli, mille domande.
Queste riflessioni mi hanno portato a cercare altre voci.
Altre storie, altri punti di vista. Altri modi di raccontare questa transizione — che non è solo diventare padre, ma diventare un padre consapevole. E magari anche un figlio un po’ più lucido.
Questa settimana mi sono buttato su due libri:
“Mi è nato un papà” di Alessandro Volta e“Da uomo a padre” di Alberto Pellai.
Due stili diversi, due approcci diversi.
Non solo letture utili, ma anche un modo per mettere ordine prima di iniziare un percorso più profondo. Un piccolo riscaldamento prima della terapia vera e propria. Un modo per farmi le domande giuste, prima ancora di avere il coraggio di cercare le risposte.
Domande come:
“Cosa ho normalizzato senza mai metterlo in discussione?”
“Cosa mi rende diverso da mio padre?”
Tu hai letto qualcosa che ti ha aiutato in questo percorso?
Hai scoperto punti di vista interessanti?
Se ti va, consigliameli.
Se questa puntata ti è piaciuta, scrivimi.
Se ti ha fatto venire in mente qualcosa — un ricordo, una domanda, un momento che hai vissuto — raccontamelo nei commenti. E se pensi che possa far bene a qualcuno leggerla, girala pure. Questo spazio nasce per condividere storie, non per tenerle strette.
Perché forse diventare padri è anche questo: fare ordine tra quello che hai ricevuto, e quello che vuoi dare.
Un pezzo alla volta. Un boh alla volta.