Se c’è una cosa che non riesco a fare, è fantasticare.
Almeno non sulle cose a cui tengo davvero.
Mi piace pianificare. Dare una forma concreta alle cose.
Oppure, al contrario, farmi travolgere del tutto.
Se mi chiedi “Dove ti vedi tra 10 anni?”, penso di poterti rispondere senza problemi.
O almeno, posso elencare tutte le versioni di futuro a cui ho pensato.
Ma quando mi è stato chiesto: “Che nome daresti a tuo figlio?”
oppure: “Vorresti che fosse maschio o femmina?”, lì… la storia è stata diversa.
La prima domanda l’ho sempre driblata facilmente.
Nel mio lavoro mi capita di dare nomi alle cose: prodotti, servizi, gelati, offerte luce.
Cose che finiscono sugli scaffali o nella testa delle persone.
E dal primo giorno mi hanno insegnato una regola importante: un nome è una responsabilità. Non si sceglie a cuor leggero.
Ecco, pensate che livello di ansia può generare in me dare un nome a un figlio.
Risultato? Non ci ho mai voluto pensare.
Sapevo che quando sarebbe arrivato il momento non ci avrei dormito la notte.
Ma per mia fortuna (e sua sfortuna), è un compito che divido con mia moglie.
Alla seconda domanda, quella sul sesso, ho sempre risposto con semplicità.
Non per reale convinzione, ma perché per molto tempo non ci avevo mai pensato davvero. E dopo tutto quello che abbiamo passato per provare a diventare genitori, ero arrivato così vicino all’idea di non poterlo mai diventare… che il sesso era diventato un dettaglio.
La risposta però, chissà perché, era sempre: un maschio.
Poi però l’abbiamo scoperto.
Ed è stato diverso.
Mi ci sono volute settimane per metabolizzarlo.
E, a dire il vero, ci sto ancora lavorando.
Diario di un (quasi) babboh: settimana 17
Siamo al quinto mese. Praticamente metà percorso, anche se chiamarlo “percorso” fa un po’ tabellone di Monopoli e un po’ fila alle Poste: lunga, misteriosa e piena di imprevisti.
In realtà siamo fermi alla casella “Aspetta la morfologica e non impazzire nel frattempo”.
La verità? Non c’è molto da raccontare.
Nessun nuovo sintomo misterioso. Zero acquisti compulsivi (almeno per ora).
È una di quelle puntate filler delle serie TV: niente trama principale, ma comunque la segui con passione.
È quel momento in cui tutto sembra stabile.
Speriamo solo non ci sia nessun colpo di scena.
Un colpo al cuore, più che di scena.
Quello che ci ha portato a fare la scoperta.
Eravamo a Bristol, a casa di mia sorella.
Stavamo leggendo i risultati del test del DNA prenatale, riga dopo riga, concentrati solo su una cosa: che fosse tutto ok.
Poi, mia moglie, presa dalla foga, ha letto ad alta voce anche il sesso.
Così, per sbaglio, senza darci il tempo di prepararci.
Uno spoiler enorme. Tipo quando scorri per sbaglio i commenti sotto un trailer e qualcuno ti scrive in caps lock come va a finire (bastardi).
Una sberla emotiva.
Più forte di quelle che si vedono nei video dei campionati mondiali di ceffoni.
A mano aperta, pesante, enorme, come quella di Bud Spencer.
Lei ha urlato.
Ci sperava. Lo desiderava. L’ha sempre saputo.
Io invece… non lo so spiegare bene.
La gioia. L’ansia. La felicità. La paura. Il silenzio.
Ho guardato Vale negli occhi. L’ho abbracciata. Ci siamo commossi.
Qualche ora dopo, senza avvisare, è arrivato anche il pianto.
Ero sul divano, assorto nei miei pensieri. Mi sono detto: “Avremo una bambina.”
E sono crollato.
Ricordo ancora la faccia di mia sorella che mi guardava come a dire: “Stai piangendo per la gioia o per il panico?”
E io: “Tutti e due.”
Dopo la PMA, questa è stata la prima, vera sorpresa.
La prima cosa che non abbiamo scelto, controllato, anticipato.
La prima cosa che ci è capitata addosso con la forza dolce di un destino che non chiede permesso.
La prima cosa da cui, per una volta, ho scelto di farmi travolgere.
Ed è stato bellissimo.
Da lì, qualcosa è cambiato.
Il ribaltamento emotivo.
Avere un figlio ti costringe a cambiare.
Avere una bambina, da padre… ti cambia.
La differenza sembra sottile, ma è sostanziale.
C’è una parte pratica, comune, certo. E poi una emotiva.
C’è quella roba più profonda, legata a noi uomini.
Quello che ci portiamo dentro (e dietro).
Alla società in cui siamo cresciuti, ai ruoli che abbiamo imparato senza accorgercene. Essere consapevoli che avrai una figlia, va in parte contro tutto questo.
E non lo dico io: lo dicono articoli, studi, ricerche accademiche.
Dimostrano che i papà hanno livelli più alti di attivazione emotiva e coinvolgimento cerebrale con le figlie (specialmente nelle aree linguistiche ed emotive) rispetto ai figli maschi, con i quali usano spesso un linguaggio più “funzionale” e meno empatico. Con i maschi i padri tendono a parlare meno di emozioni e più di performance, mentre con le figlie si lasciano più andare.
Il cambiamento di cui parlo quindi non è solo legato al fatto che inizi a notare tanti piccoli dettagli in più che ti circondano. È più sottile. È un cambiamento che ti scava, che ti mette uno specchio davanti. E non sempre è comodo.
Poi, mentre stai lì a fare le tue riflessioni, come se non bastasse tutto quello che leggiamo e sentiamo tutti i giorni, l’algoritmo decide di darti il colpo di grazia. Un post su Instagram urla: secondo l’Istituto X e uno “studio scientifico Y”, crescere una figlia sarebbe quasi due volte più stressante rispetto a crescere un figlio.
Un secondo dopo ero già lì, concentrato come Sheldon Cooper nel suo prime, a cercare prove.
Volevo capire:
A. Se fosse vero (così potevo correre da mia moglie a dirle che eravamo ancora più fottuti di quanto pensavamo. Scherzo, spero.).
B. Se c’era almeno un fondamento.
Spoiler: no.
Il “National Parents Wellness Institute” citato nel post non esiste.
E nessuno studio scientifico serio sostiene quella tesi.
È solo l’ennesima pagina con oltre mezzo milione di follower che pubblica fake news a favore di like e follower.
Come dicevo, ci sono già tanti motivi per cui essere preoccupati: un mondo che parlerà del suo corpo prima delle sue idee. Del suo aspetto prima del suo carattere. Che proverà a cucirle addosso un modo di essere, di parlare, di piacere. Un mondo che uccide, anche solo per un rifiuto.
Poi ci domandiamo perché un uomo, anche solo inconsciamente, può preferire avere un figlio maschio. A parte tutto questo, i motivi potrebbero essere diversi.
1️⃣ Il bias dell’identificazione: “Lo capisco meglio.”
Molti padri, consciamente o no, tendono a sentirsi più a loro agio con un figlio maschio perché: ci si identificano più facilmente (“so cosa pensa un dodicenne con gli ormoni a palla”); pensano di potergli trasmettere “regole di vita da uomo”; immaginano di condividere passioni (calcio, videogiochi e… insert your cliché here).
Questo si chiama proximity bias: ci sentiamo più competenti quando interagiamo con qualcuno che “ci assomiglia”. Ma è un’illusione: crescere un figlio maschio richiede comunque empatia, ascolto e una ridefinizione della mascolinità. Non un semplice copia e incolla.
2️⃣ Il mito del “sarà più semplice.”
C’è l’idea diffusa che i maschi siano più semplici da crescere, perché: “non sono così emotivi” (falso, lo sono ma li si educa a non mostrarlo); “non devi preoccuparti di come si veste/con chi esce/se rimane incinta”.
In realtà questi pensieri sembrano figli di un’altra epoca, ma purtroppo riflettono ancora una quotidianità fatta di pregiudizi di genere, e spesso finiscono per trascurare i bisogni emotivi dei figli maschi. Rafforzando la famosa mascolinità tossica.
3️⃣ Che fai non ce la metti una sana dose di cultura pop?
Film e serie ci hanno bombardato per anni con: papà che fanno “cose da uomini” con i figli (barba, pesca, calcio) o che vanno in tilt quando devono affrontare un “drama da femmine”.
Ma siamo nel 2025 e lentamente anche questa narrativa sta cambiando: da This Is Us a CODA, fino a Aftersun, vediamo rappresentati (e apprezzati) sempre più padri che si perdono, si mettono in discussione e imparano, anche dalle figlie.
C’è tanto da fare prima di cambiare il mondo.
Il punto è che non ha senso fasciarsi la testa, né per una bambina né per un bambino.
Come ha scritto un utente su Reddit, rispondendo in modo geniale a un padre in attesa di una figlia che chiedeva: “Cosa comporta avere una femmina?”
Ovvero: “amico mio, non verrà partorita con problemi da donna.”
Tradotto: non spostare lo sguardo troppo avanti.
Concentrati sul presente.
Perché il futuro prossimo, quello dei primi mesi, è uguale per tutti.
Una neonata ha bisogno di poche cose, ma fondamentali.
E il nostro compito, gigantesco, è imparare a darle.
La verità è che, almeno all’inizio, mia figlia sarà come tutti gli altri neonati del pianeta.
Stesse esigenze. Stesse notti insonni. Stessa fame alle tre del mattino.
Nei primi mesi, le cose importanti sono altre.
Chi ci è passato lo sa, e infatti sempre nello stesso thread di Reddit, non perde tempo a filosofeggiare: condivide consigli che puntano dritto all’essenziale.
Siamo esseri strani (o almeno, io lo sono di sicuro).
Il primo pensiero, quello che mi ha accompagnato fino a quando non ho scritto questa riga, non è stato:
“Chi diventerò?”
ma:
“Come faccio a cambiare il mondo per lei?”
Prima ancora di cambiare le mie abitudini, volevo cambiare quelle degli altri.
Forse, però, il primo passo per darle un futuro migliore è proprio questo: smettere di pensare a cosa troverà là fuori, e iniziare a pensare a cosa troverà in casa.
Darle delle basi solide, un modello positivo e la libertà di affrontare il mondo a modo suo.
Lo so, questo episodio è molto lungo.
Ma se siete arrivati fin qui, forse qualcosa ha fatto clic.
Se volete raccontarmi il vostro “clic”, o anche solo dire “stessa sberla emotiva pure per me”, sapete dove trovarmi. Basta un like, un commento o anche una condivisone.
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